Dall’Informatica umanistica alle Digital Humanities. Per una storia concettuale delle DH in Italia

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Authorship
  1. 1. Fabio Ciotti

    Università di Roma Tor Vergata

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Introduzione
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una rinnovata attenzione nei confronti della dimensione storica delle Digital Humanities. Le ragioni di questo interesse si possono rintracciare da una parte nella rilevanza assunta del dibattito sul multiculturalismo e sulla dimensione geopolitica delle DH; dall’altra nella ricorrente questione della definizione disciplinare e dei suoi confini: risalire alle radici storiche sembra una efficace strategia di analisi e di argomentazione per affrontare entrambe le problematiche. Tuttavia anche questo nuovo fervore storiografico fatica a riconoscere la molteplicità delle tradizioni culturali e nazionali, e il loro ruolo nello sviluppo delle DH globali. In questo paper intendo contribuire alla costruzione di una prospettiva storiografica plurale, delineando il primo abbozzo di una storia concettuale delle DH in Italia.

Il dibattito recente sulla storia delle DH
La riflessione storica sulla propria origine ed evoluzione ha sempre accompagnato il dibattito nel campo delle DH
(Hockey, 2004). Tuttavia nell’ultimo lustro il genere auto-storiografico è stato particolarmente frequentato. Per citare solo alcuni dei lavori più rilevanti possiamo ricordare la
lectio “Getting there from here: Remembering the future of digital humanities”, tenuta da Willard McCarty alla conferenza DH2013 in occasione del conferimento del
Busa Award
(McCarty, 2014), dove lo studioso canadese delinea una stimolante
genealogia delle DH, contrappuntata da una personale biografia intellettuale. Notevole anche il saggio di Edward Vanhoutte nel volume miscellaneo
Defining Digital Humanities, intitolato “The Gates of Hell. History and Definition of Digital | Humanities | Computing”
(Terras et al., 2013: 119–56), che ripercorre questa storia dalle origini fino al primo decennio di questo secolo, focalizzando soprattutto l’area degli studi linguistici e letterari e offrendo un dettagliato resoconto della transizione da
Humanities computing a
Digital Humanities. Una prospettiva interessante è offerta dal recente libro di Julianne Nyhan e Andrew Flynn
Computation and the Humanities: Towards an Oral History of Digital Humanities
(Nyhan and Flinn, 2016), in cui lo studio dei documenti e lo scavo negli archivi si combina con la storia orale narrata dai protagonisti. La stessa studiosa ha dedicato grande attenzione all’opera di Padre Roberto Busa, grazie all’esame degli archivi personali conservati presso l’Università Cattolica di Milano; al “padre fondatore” ha dedicato un recente volume anche Steven Jones
(Jones, 2016). Maggiormente focalizzato sulla storia del rapporto tra studi letterari (anglo-americani) e metodi informatici è il saggio di Amy Earhart
Traces of the old, uses of the new: the emergence of digital literary studies
(Earhart, 2015).

Un elemento che accomuna questi lavori, nonostante i diffusi e convinti richiami alla necessità di adottare una visione plurale, multiculturale e globale delle DH, è che essi sono fondamentalmente centrati sulla tradizione anglo-americana la quale, di fatto, appare da queste ricostruzioni come l’unica ad avere veramente prodotto risultati teorici e operativi degni di nota. Non intendo discutere in questa sede questioni di geopolitica delle DH, peraltro affrontate egregiamente, tra gli altri, da Domenico Fiormonte sul piano della critica teorica e politica
(Fiormonte, 2016; Fiormonte, 2017) e da Marin Dacos su quello dell’indagine sociologica empirica
(Dacos, 2016).

D'altra parte è innegabile che, almeno per quanto riguarda i risultati pratici, storicamente le DH di origine angloamericana siano state più efficaci, se non altro in virtù degli assai più ingenti finanziamenti di cui hanno potuto godere. Ma resta pur vero che la storia delle DH è stata assai più plurale, se non caleidoscopica, di quanto gli autorevoli studiosi che abbiamo ricordato non riconoscano (con poche rare eccezioni e per pochi nomi eccellenti). Una pluralità che è anche e soprattutto teorica ed epistemologica, e che oggi si manifesta ancora e di nuovo nei diversi e non sempre conciliabili modi in cui si declina il sintagma Digital Humanities.
La storia dell’Informatica Umanistica italiana rappresenta una tessera importante di quel caleidoscopio, che manifesta la sua peculiarità a partire dal nome della cosa stesso, dove spicca la funzione sostantivale del temine “informatica”. Questo paper intende fornire un primo contributo per una storia concettuale, prima e più che evenemenziale, dell’Informatica Umanistica.

La preistoria: dopo Busa
Iniziamo tuttavia con una osservazione fattuale: la tradizione italiana nell’informatica umanistica è maturata e si è sviluppata per un lungo periodo di tempo e senza soluzione di continuità. Il riferimento a padre Busa, universalmente riconosciuto come il fondatore di questo dominio scientifico, e alla sua attività di digitalizzazione e indicizzazione delle opere di Tommaso d’Aquino iniziato addirittura alla fine degli anni 40 dello scorso secolo, è piuttosto ovvio. Ma voglio far notare che l’impresa di Busa non era assolutamente isolata in Italia. È sufficiente ricordare che nel 1961 il prestigioso annuale “Almanacco Letterario Bompiani”
(Morando, 1961), pubblicazione il cui ruolo innovativo nel dibattito culturale degli anni 60 italiano è difficilmente sottostimabile, dedicava la sua parte monografica al tema “Le Applicazioni dei Calcolatori Elettronici alle Scienze Morali e alla Letteratura”. Nel dossier, arricchito dalla splendida grafica di Sergio Munari e da un lussureggiante apparato iconografico, trovano spazio una serie di interventi originali e di estratti da opere preesistenti, che spaziano dai fondamenti teorici delle macchine computazionali, alle prime pionieristiche ricerche nel campo della traduzione automatica, in quello della linguistica computazionale (con un intervento dello stesso Busa), e della filologia informatica (con la descrizione di un progetto di Aurelio Roncaglia); ma non mancano testi di riflessione teorica e critica, come il bel saggio di Franco Lucentini sul tema dell’automa nella letteratura e il saggio di chiusura di Umberto Eco “La forma del disordine” che allude ai temi del capitale
Opera aperta; e vi compare uno dei primi esperimenti di letteratura elettronica (probabilmente il primo in assoluto): il poema computazionale
Mark 1 di Nanni Balestrini. Sin da quegli anni lontani, insomma, i più avvertiti e innovativi tra gli intellettuali italiani mostravano una visione a un tempo plurale e teoricamente rigorosa delle prospettive aperte dall’incontro tra informatica e scienze umane.

Sulla scorta di queste esperienze seminali, a cavallo tra la fine del decennio e l’inizio del successivo, vengono fondati i primi centri in cui il rapporto tra scienze umane e informatica trova una collocazione istituzionale. Ci riferiamo in particolare all’Istituto di Linguistica Computazionale del CNR fondato alla fine degli anni 60 dal professor Zampolli a Pisa (già culla dell’informatica italiana), che divenne ben presto un riferimento di eccellenza per l’elaborazione automatica del linguaggio a livello internazionale. Sempre nell’ambito del CNR si colloca l’Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee (ILIESI), fondato dal Professor Gregory. In stretta connessione con l’esperienza dell’ILC, il centro sin dagli anni 70 si dedicò alla creazione di risorse testuali in formato digitale e all’analisi lessicografica computazionale, con uno specifico interesse per la storia delle idee nell’età moderna.

La fondazione dell’Informatica Umanistica: Tito Orlandi e la scuola romana
Se la genealogia del sapere informatico umanistico italiano affonda le sue radici in epoche lontane, la sua manifestazione teoricamente più rilevante si colloca negli anni ‘80 dello scorso secolo presso l’Università di Roma La Sapienza: nasce qui, infatti, l’idea dell’Informatica Umanistica come disciplina
autonoma con uno spiccato orientamento metodologico. La figura trainante di questo percorso intellettuale è Tito Orlandi. Portando a sintesi una serie di esperienze scientifiche e didattiche avviate negli anni precedenti, nel 1984 fonda alla Sapienza il Gruppo di ricerca “Informatica e Discipline Umanistiche”, dove raccoglie un gruppo di studiosi, il quali condividevano la “consapevolezza […] che le procedure informatiche rappresentavano un naturale completamento delle proprie ricerche”
(Introduzione a Gigliozzi, 1987: IX).

Ciò che caratterizza questa esperienza e che ne definisce la natura fondazionale per la storia concettuale del campo, è il rifiuto di una visione strumentale dell’informatica nelle discipline umanistiche (che era allora già abbastanza diffusa se non predominante nelle pur aurorali sperimentazioni a livello internazionale) e la netta predilezione per un approccio teorico ed epistemologico. L’informatica viene intesa non come ingegneria ma come scienza teorica della rappresentazione ed elaborazione (automatica) dell’informazione, e su questo terreno è evidente la convergenza con le scienze umane (e non solo di quelle basate sul linguaggio, ché sin dalle origini nel gruppo romano grande importanza ebbe l’archeologia, soprattutto in virtù dell’influenza su Orlandi dell’opera di Roger Gardin). Una convergenza che si manifesta fondamentalmente sul piano metodologico
(Orlandi, 1992: 17):

il rapporto tra informatica e discipline umanistiche si può esprimere nella questione se vi sia un modo “informatico” di vedere (anche) le discipline umanistiche, che si differenzia a seconda delle discipline (e che dunque, in questo caso, rappresentano l'oggetto di questa disciplina), ma che rimane unitario nel modo di considerarle. Il modo informatico prevede la formalizzazione dei dati […] e la formalizzazione delle procedure per analizzarli e valutarli
Su queste basi non stupisce che il gruppo romano si sia concentrato su aspetti e temi fondativi quali: il problema della codifica intesa come processo semiotico e formale
(Gigliozzi, 1987); il concetto di modello e modellizzazione
(Gigliozzi, 1992); la ridefinizione del concetto di edizione scientifica
(Mordenti, 2001); i fondamenti della critica computazionale e la modellizzazione formale delle strutture narrative
(Gigliozzi, 2008). La sintesi di questa stagione di studi viene fornita dallo stesso Orlandi con il suo fondamentale manuale
Informatica Umanistica
(Orlandi, 1990).

Dopo la chiusura di questa prima esperienza sono soprattutto due i membri del gruppo che proseguono il progetto intellettuale originale. Tito Orlandi fonda nel 1991 il CISADU (Centro Interdipartimentale di Servizi per l’Automazione nelle Discipline Umanistiche), il primo centro di informatica umanistica propriamente detto in Italia, e prosegue nella sua esplorazione sui fondamenti teorici e metodologici della disciplina. Giuseppe Gigliozzi – che morirà prematuramente nel 2001– nella seconda metà degli anni 90 fonda il CRILET (Centro Ricerche Informatica e Letteratura), dove all’aspetto teorico si affianca l’attività applicativa e la creazione di risorse digitali. I temi di ricerca principali sono l’analisi testuale - esemplare il suo studio su
Memoriale di Volponi
(Gigliozzi, 1996) – e la digitalizzazione e codifica dei testi. Questa esperienza ha giocato un ruolo determinante nella diffusione della
Text Encoding Initiative (e di XML) in Italia e nella sua affermazione come standard di riferimento nella la maggior parte dei programmi di digitalizzazione testuale nel paese
(Ciotti, 1994; Ciotti, 1997).

Conclusioni
La storia dell’Informatica Umanistica italiana non si esaurisce ovviamente nella “scuola romana”. Già negli anni novanta nel campo digitale si affacciano numerosi altri studiosi, centri, progetti e nuove prospettive e punti di vista emergono: ad esempio la scuola degli studi ipertestuali promossa da Mario Ricciardi
(Ricciardi and Bonadonna, 1994); o la realizzazione della Letteratura Italiana Zanichelli da parte di Pasquale Stoppelli
(Stoppelli, 2005), che ha sempre avuto una visione strumentalista e ancillare dei metodi informatici. Con il nuovo millennio il panorama si fa sempre più articolato e oggi il movimento italiano è pienamente integrato nelle Digital Humanities globali.

Resta il fatto che diversi decenni di sperimentazioni e di elaborazione teorica hanno una visibilità globale assai scarsa. Senza dubbio la barriera linguistica ha costituito un ostacolo molto arduo da superare per ottenere il dovuto riconoscimento. Ma la questione del multilinguismo e del multiculturalismo nella comunità globale delle Digital Humanities è anche e soprattutto un problema di macro e microfisica dei poteri. Anche per questo occorre raccontare le
nostre storie.

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